Dario Levantino è nato a Palermo nel 1986. Laureato in Lettere e Filosofia, insegna italiano in un liceo di Monza. Il suo libro d’esordio, Di niente e di nessuno (Fazi Editore, 2018), ha vinto il Premio Biblioteche di Roma 2018, il Premio Subiaco Città del Libro 2018, il Premio Leggo Quindi Sono 2019 ed è stato tradotto in Francia con il plauso della critica. Il suo secondo romanzo, Cuorebomba, è uscito nel 2019 ugualmente pubblicato in Francia. Con La violenza del mio amore (2021), il terzo episodio della serie, l’autore ha continuato a seguire le vicende di Rosario, un personaggio molto amato da tutti i suoi lettori.
Il suo ultimo romanzo è “IL CANE DI FALCONE”: è la storia di un’amicizia speciale tra un cane randagio e il magistrato palermitano. Un romanzo edificante sul valore del coraggio e la forza delle idee che sopravvivono alla morte. Un libro sulla mafia e la figura di Falcone, viste però con gli occhi di un cane.
«”Il cane di Falcone” è un libro in cui la mafia è raccontata in modo originale e mai retorico. L’autore dà al lettore le chiavi per capire una realtà complessa senza mai essere didascalico. E ci insegna che affrontare i propri mostri e sconfiggerli è molto più facile di ciò che temiamo» – (Maria Falcone)
Un cucciolo orfano di madre viene raccolto e accudito da un uomo. Quell’uomo è Giovanni Falcone, magistrato impegnato a contrastare la mafia nella Palermo insanguinata degli anni Ottanta. Uccio, più volte scampato alla morte, ha maturato un senso di giustizia che lo spinge a impegnarsi contro la malavita. Ma una notte, mentre si esercita ad affinare il suo latrato, da un palazzo lì vicino scende Giovanni Falcone, che lo accarezza e che, malgrado non possa portarlo a casa, lo accoglie amorevolmente nell’atrio del tribunale di Palermo, dove opera con il suo pool antimafia. Da quel momento, mentre si susseguono i tristi delitti di mafia, tra cane e padrone si instaura un’intensa amicizia, che verrà stroncata solo dal brutale omicidio del magistrato. Alla fine, vecchio e con le ultime forze, Uccio prende dimora nell’atrio del tribunale di Palermo per vegliare la statua del giudice presa di mira dai teppisti, mettendo in atto così la lezione più importante appresa da Falcone: il coraggio. Nel trentennale della strage di Capaci, un racconto commovente e delicato che, con leggerezza e senza toni retorici, affronta un tema difficile e una delle pagine più buie della nostra Storia dimostrando che l’amore e il senso di giustizia possono trionfare su qualsiasi forma di violenza e sopraffazione.
Il Circolo ProDesio ha organizzato questo incontro nel trentennale della strage mafiosa di Capaci del maggio 1992 dove sono stati uccisi Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e gli agenti della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro.
L’ha organizzato perché non si può e non si deve dimenticare e perché bisogna sempre tenere alta la guardia, anche in Brianza.
Quello di Levantino è un libro da leggere. I ragazzi dovrebbero leggerlo, ma anche gli adulti.
Il ticchettio di un timer ha scandito la presentazione di Dario Levantino sugli ultimi minuti della vita di Giovanni Falcone, di sua moglie Francesca Morvillo e degli agenti della sua scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro.
Prima di parlare del suo ultimo “Il cane di Falcone” ha raccontato la storia di Falcone, del pool antimafia fino all’ultimo terribile giorno in cui viene ucciso con 500 kg di tritolo.
Ha raccontato poi come è nato il suo libro: “Nell’agosto del 2018, mentre sfogliavo il quotidiano al bar, mi sono imbattuto in una notizia di cronaca che mi ha emozionato. Morto Uccio, il cane randagio che da anni aveva scelto come casa la statua di Falcone e Borsellino al tribunale di Palermo. Il randagio, che dormiva ai piedi del bronzo di Falcone, era stato adottato dai giudici e dagli avvocati che ogni giorno frequentano il Palazzo di giustizia di Palermo ed era stato soprannominato, a ben ragione, Il cane di Falcone. È stato un attimo: l’articolo riportava la foto di questo cane ai piedi della statua: malconcio, magro, col pelo sporco, ma fiero e guardingo, come se facesse la guardia alla memoria della nostra storia. Il suo sguardo mi rapì. Avevo tutti gli ingredienti che mi servivano. Un motivo per scrivere di Falcone, una storia da proteggere dall’oblio, e un punto di vista autentico. La storia del giudice l’avrebbe raccontata proprio lui, Uccio. Da qui il romanzo che non poteva avere altro titolo”.